Patrizia Bonardi

Patrizia Bonardi

 

2018 Performance vocale durante la mostra Pane nero - P. Bonardi con Lucia e Silvia Corna

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Il canto delle filandine

La mostra Pane nero occupandosi delle categorie svantaggiate di lavoratori, compie un viaggio spazio temporale e si spinge a guardare il contributo dato per secoli, durante l'industrializzazione di fine '700 fino agli anni '30 del '900 dalle filandine, le operaie che dipanavano e filavano la seta.

In mostra tre artiste dedicano le loro opere al loro duro lavoro, lavoro spesso minorile, a quaranta gradi, con l'immersione delle mani in acqua caldissima.


Patrizia Bonardi unisce le due dimensioni che la caratterizzano, la creazione di lavori materici e la performance che da video diventa per la prima volta dal vivo insieme alle due figlie.

Si tratta di una performance canora, che invece di usare più tracce della sua stessa voce, come tipicamente nei sonori dei video di Bonardi, usa le tre voci delle performer.


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Patrizia Bonardi

Il canto delle filandine 2018


- Installazione composta da tre grembiuli, cuciti a mano, formati da bende intinte nella cera d’api


- Performance vocale dell’artista insieme alle figlie (Silvia e Lucia Corna)


Il lavoro “Il canto delle filandine” nasce dal bisogno di conoscere il passato prossimo del lavoro delle donne umili, avendo una mamma ex-operaia ho provato interesse verso questa dimensione. Sul territorio è presente un museo del tessile in cui si cerca di riscoprire quel mondo, un mondo legato alla realtà contadina che per risollevare i propri miseri bilanci spesso di mezzadria o di tèrso, si vedeva costretta a mandare in fabbriche malsane e prive di tutele sindacali le loro giovani ragazzine. C’erano però anche mogli e chi passò una vita lì in quegli ambienti malsani per via di una temperatura altissima (più di quaranta gradi) e di umidità da nebbia che comportava nei corpi debilitati dalla malnutrizione contagi frequenti di malattie gravi quali la tubercolosi, la scrofola, il rachitismo, la clorosi, la discrasia e l’amenorrea. A 8 anni le più piccole venivano assegnate alla pulizia dei reparti, ma a partire dai 12 anni erano costrette a turni estenuanti per dipanare il filo nell’acqua caldissima, quasi bollente. Le loro manine erano oro per la resa del baco da seta. Inoltre più erano piccole e meno guadagnavano.

La manodopera minorile era quindi all’ordine del giorno e diffusissima e questo fino allo scoppio della prima guerra mondiale.


Come mamma e artista ho avuto il grande desiderio di cucire i grembiuli delle filande e delle filandine. Ho proposto alle mie figlie di contribuire a portare a conoscenza questo mondo grazie alla loro presenza con me in una performance. Non è la loro prima volta, visto che nei miei lavori di videoarte le ho coinvolte in diverse occasioni. Questo è però la nostra prima volta dal vivo.

Gli abiti da me cuciti sono composti da bende intinte nelle cere d’api naturali che passano dall’avorio a gialli anche accesi. 

Ho cucito a mano una benda a fianco all’altra, così da formare il tessuto con cui ho composto semplici abiti grembiule, cercando di esprimere la dignità interiore delle filandine e la loro voglia di riscatto.


Durante Pane nero indosseremo gli abiti che fanno parte della mostra. Ne fanno parte appesi al muro in modalità installativa che cerca di rendere presenti i corpi delle filandine, pur nell’assenza. Il tempo è passato e di loro rimane solo la memoria se sapremo conservarla. “Il canto delle filande” è così silenzioso in quei vestiti di cui due dei tre hanno la tenerezza di abiti da ragazzina, mentre il terzo ha le dimensioni di un’adulta. Il tentativo è quello di far immaginare la presenza dei minori al lavoro insieme agli adulti, spesso anche parenti. Questo è stato possibile avendo due figlie che benché vent’enni presentano un corpo un po più minuto del mio.


La performance vocale all’interno della mostra Pane nero ci vedrà cantare a tre voci due  canzoni popolari tratte dalle molte raccolte in un bellissimo libro del musicista  ricercatore Giampietro Bacis “Filande, filandine e filandere”.

Una di queste canzoni dal titolo “Mamma mia mi sun stüfa” è considerata l’inno delle filandere perchè è la canzone più conosciuta e diffusa delle canzoni di filanda in tutto il nord Italia. Va detto che la storia delle filande è una storia che riguarda tutta l’Italia e che anzi nel sud Italia questa storia è più antica essendo al di fuori dei commerci di seta della Serenissima che la portava direttamente da Oriente.

 

Ecco uno dei due testi:


Povre Filandere


Povre filandere

no gh’avrì mai bén

dormerì ‘n la pa-ja

creperì ‘n del fén

Dormerì’n la pa.ja

creperì ‘n del fén

povre filandere

no gh’avrì mai bén


Suna la campanèla 

gh’è gnà ciar gnà scur

povre filandere

i pica ‘l co ‘n del mür

Povre filandere 

gh’è gnà ciar gnà scür

suna la campanèla

i pica l’ co ‘n del mür


Terminologia:


Cal e il póch sono gli esiti dei controlli quantitativi effettuati sul lavoro delle filandere: quando il rapporto fra il peso della sera prodotta e il peso iniziale dei bozzoli consegnati era inferiore ad un terzo si aveva il cal, il póch si verificava quando la filandera aveva prodotto poca seta e non aveva quindi lavorato abbastanza nella giornata.

Il cal era una mancanza lieve; più grave era invece il poch e veniva punito anche con la decurtazione della paga.

Il pruvin era l’analisi qualitativa del filato per stabilire la bravura della filandaia.

Il filùr era il pulbiscolo prodotto dall’operazione di dipanatura e trattura della seta che consiste, nell’avvolgere sull’aspo (aspa) i fili di seta svolti dai bozzoli immersi nelle bacinelle di acqua calda.