Patrizia Bonardi

Patrizia Bonardi

Kevin McManus per P.Bonardi Vite che non possiamo permetterci 2017


Umanità

Ci sono mostre che seducono come un bel libro; magari di difficile lettura, ma capace di lasciare qualcosa, alla fine di ciascuna pagina, che inviti a leggere la pagina successiva, e così fino alla fine. E ci sono mostre che invece seducono come un panorama di montagna, o come una marina immersa nel sole, o ancora come il fuoco che arde in un camino in autunno. Vite che non possiamo permetterci, senza presunzione, vuole percorrere entrambe le strade, magari in tempi diversi, sicuramente lasciando al fruitore la scelta (la seduzione, almeno in arte, implica il desiderio di lasciarsi sedurre). Ma non intendo anticipare le conclusioni: la seduzione del secondo tipo descritto è evidente fin dall’ingresso nello spazio BACS a Leffe, che ci immerge immediatamente, ci abbraccia in una grande installazione composta dai singoli lavori, ma che ciononostante si presenta come un “tutto” avvolgente. Non si tratta però di una fusione, o di un sacrificio della singola opera a favore dell’insieme, ma piuttosto di una polifonia in cui tutte le singole voci, ciascuna con un proprio tempo e una propria storia, conservano una sostanziale e irrinunciabile autonomia. L’esito di questo armonico mescolarsi di suggestioni singole è innanzitutto estetico; chi conosce il lavoro di Patrizia Bonardi sa bene (ne parleremo tra poco) come esso sia radicato in una riflessione profonda su temi extra-artistici. Ben lontana, tuttavia, dall’affidarsi a quell’«estetica del supplemento», per citare Seth Siegelaub, che in molta arte degli ultimi decenni costringe lo spettatore a un sempre più complesso, disarticolato processo di lettura di testi d’accompagnamento, di elementi istallativi “paralleli” che forniscono le informazioni indispensabili alla comprensione dell’opera, la nostra artista punta ancora sulla densità e concentrazione dell’opera d’arte forte, fatta in primis di sensorialità; sulla solleticazione, insomma, del gusto di chi guarda, che è ottico, certamente, ma anche “aptico”, tattile. Non c’è mai quel distacco visuale dato dal consueto rapporto con la cornice (un fuori che osserva un dentro); c’è sempre una co-presenza spaziale, un desiderio di toccare e, in alcuni casi, di entrare all’interno dei lavori.

L’impressione, insomma, è quella di una forte umanità; intesa non tanto nell’accezione più scontata di sensibilità e apertura verso l’altro (elemento che c’è eccome, ma che non costituirebbe di per sé una prerogativa), quanto in quella più complessa di una relazione orizzontale, contestuale tra opera e fruitore. È l’arte, insomma, a venire incontro all’uomo e al suo mondo, talvolta esplicitamente e tematicamente, come in When I read to you, talvolta più visceralmente, attraverso la scelta dei materiali: la benda, materiale fatto per un contatto assoluto e solidale con la pelle, emblema di protezione e cura ma anche e innanzitutto, come dicevo, superficie che invita il tatto a superare la barriera elitaria della fruizione visiva; la cera, materiale malleabile che non si limita a subire l’azione delle mani ma, come un fiore che attira le api con i suoi petali, la suggerisce, la incita, chiamando a sé il tocco dell’uomo-artefice. E non si tratta solamente di suggerire il gesto dell’osservatore, ma anche di portare la traccia del gesto originario dell’artista, di rievocare il tempo fisico, corporeo dell’esecuzione dell’opera, come in Marea nera, dove l’inserimento della lamina metallica in un solco continuo inciso lungo la superficie sembra ripercorrere la gestualità frenetica, quasi violenta che ha generato l’opera. O nella stessa When I read to you, che invece sembra testimoniare la pazienza del lavoro manuale e rituale del cucire, del costruire un rifugio. O ancora in Countercurrent, il cui “montaggio” finale mostra allo schermo dell’immaginazione il delicato tocco della mano che appoggia ogni singolo pezzo alla parete, dandogli simbolicamente vita.

Opere individuali, ciascuna impregnata di una propria storia e di proprie ragioni poetiche, realizzate in momenti diversi e alla luce di pensieri e sentimenti diversi; e che tuttavia vanno a costituire un “tutto” relazionale, dove la relazione stabilita avviene tra artista e osservatore, attraverso il lavoro.


Significato e senso

Lo spettatore romantico e impulsivo può anche fermarsi qui. L’arte di Patrizia Bonardi offre di per sé, anche a una fruizione ingenua, abbastanza da portarsi a casa. Ma c’è dell’altro. Esplicitamente, questa polifonia di opere costituisce un omaggio a una delle figure chiave della sociologia contemporanea, Zygmunt Bauman. E tutto il lavoro di Patrizia Bonardi è fatto di un tendere verso una dimensione diversa da quella confinabile entro il discorso specifico dell’arte; un’attività che fin dalla fondazione di BACS punta a costruire un ponte tra arte e sociologia, ovvero tra quelle che sono forse le più umane di tutte le “scienze umane”. Tutta la vera arte è, in fin dei conti, sociale in senso lato, dal momento che mette in crisi (o perlomeno dovrebbe) la sicurezza dello status quo, suscitando riflessioni diverse da quelle legate all’utilitarismo delle cose di tutti i giorni, creando un orizzonte di pensiero estetico inizialmente superfluo, ma che poi si configura come essenziale alla costituzione di un modo umano di vedere il mondo («poeticamente abita l’uomo su questa terra» diceva lo pseudo-Hölderlin). L’arte della Bonardi, tuttavia, ambisce ad essere anche sociologica, introducendo quindi il riferimento a un ambito disciplinare ben preciso. Come ci riesca – e come ci riescano nello specifico le opere in mostra – lo potrà spiegare meglio la sociologa Manola Del Greco nel suo testo in questo catalogo; limitiamoci qui a un paio di suggerimenti.

Il primo riguarda una sorta di metodologia dell’osservatore, e può essere utile anche al di fuori dei confini della mostra. Come cogliere la forza di questi lavori, come identificare il legame suggestivo che li lega alla riflessione sociologica e, sottilmente, al testo di Bauman da cui prende il titolo l’evento (legame multiforme e instabile, dal momento che molte opere prescindono dalla lettura del testo o addirittura la precedono)? Come individuare questo ponte tra un lavoro pienamente e intensamente artistico come quello di Patrizia Bonardi e un discorso specifico come quello della sociologia? È necessario prima di tutto fare uno sforzo e abbandonare l’ossessione per il significato, a favore di una ricerca del senso; queste due parole, infatti, sono usate ampiamente come sinonimi nel linguaggio quotidiano, ma nel discorso dell’arte sono estremamente distanti. Il significato è ciò che “sta dietro” l’opera, presa quindi come significante; è quel referente assente di cui l’opera si fa segno presente (significatum). Cercare il significato vuol dire insomma chiedersi «che cosa vuol dire?». Più di cinquant’anni fa Susan Sontag, in Against Interpretation, suggeriva un nuovo atteggiamento per il fruitore dell’opera d’arte, che consisterebbe nel chiedersi «Che cos’è?», anziché «Cosa significa?»; e concludeva il saggio auspicando, al posto di un’«ermeneutica dell’arte», una più pertinente «erotica dell’arte». Sentire l’arte non per il presunto – e spesso inesistente – messaggio in codice che ci dovrebbe proporre, ma per la sua natura di oggetto di conoscenza sensibile. Il suggerimento della Sontag spinge verso una fruizione fisica e formale (non necessariamente formalista) dell’opera, che non comporti l’esigenza di capirla, e quindi di dominarla, ma piuttosto quella di mettersi in ascolto di essa, di far risuonare in qualche modo gli stimoli sensoriali da essa attivati.

Il senso è tutt’altro. È la direzione in cui il contatto con l’opera mi pone, è il luogo verso cui mi spinge a guardare, la strada in cui mi colloca: una strada ampia di cui il singolo soggetto fruitore può decidere di esplorare punti diversi, e di cui lo sguardo individuale può illuminare zone diverse. Ma nondimeno una strada con dei limiti laterali. Un’apertura vasta ma non totale ed aleatoria. L’opera cioè non nasconde nulla, non parla nessun linguaggio in codice, ma ha la capacità di modificare il mio tragitto, di portarmi a volgere lo sguardo in una direzione suggerita. Ecco, optando per il senso, a mio avviso, si può cogliere la portata ulteriore dei lavori di Patrizia Bonardi, la loro dimensione al di là dell’impatto visivo: non cercando quindi, corrispondenze segrete tra la tale opera e un certo passo di Bauman, e nemmeno un concetto baumaniano specifico (ma qui rimando, di nuovo, al testo di Manola Del Greco, nonché all’intervista all’artista di Ilaria Bonacina), ma piuttosto lasciandosi direzionare in un senso, che può essere lo stesso in cui ci direzionerebbe, con strategie discorsive diverse, la lettura del libro di Bauman.


Vite che non possiamo…

Ecco allora che When I read to you ci direziona verso un’idea di precarietà e al tempo stesso di protezione, di custodia del senso prodotto emblematicamente dal libro; ecco che Countercurrent ci parla di un moto irrituale e ostinato, di orientamento indecifrabile. Run to the Past ci comunica con estrema economia di mezzi un’idea di chiusura e al tempo stesso di ritualità liberatoria, di ritorno del tempo si sé stesso. Liquid collapses ci rimanda alle immagini di abitazioni devastate dalla guerra, scorticate e private della facciata, elemento di identificazione (come il volto di una persona) ma anche confine tra pubblico e privato. Honey Moon ci mette davanti, in modo tattile e, verrebbe da dire “ecologico”, alla superficie lunare amata da poeti e artisti, in un andirivieni di gusto per la superficie e suggestioni di profondità. La Marea nera, di cui sopra, nata sulla scorta di riflessioni sull’inquinamento dei mari, non ci propone un messaggio univoco, ma ci pone davanti alla sensazione fisica di angoscia e soffocamento, di invasione dello spazio naturale, attraverso il gioco dei suoi materiali. Il Quasar, immagine astronautica ma anche memoria dell’effetto-risucchio dei vecchi televisori a tubo catodico al momento dello spegnimento, non ci illustra pedissequamente le sue fonti di ispirazione, ma ne condivide l’idea di chiusura catastrofica, vorticosa e traumatica, e al tempo stesso di abbaglio e accecamento. Breaking Geometry, un cubo distrutto di cui restano le facce separate e ammucchiate, ci mette davanti al trionfo del naturale sull’artificiale, del fisico sul mentale, del concreto sull’astratto, della presenza sull’assenza, con i resti di una forma puramente teorica, immateriale visti nella loro esistenza gravitazionale. Le Colonne d’acqua ci direzionano verso l’esperienza sublime e drammatica dell’immersione, che vuol dire annegamento oppure salita verso la luce, verso la salvezza.

I lavori realizzati appositamente per la mostra riprendono una riflessione compiuta dall’artista sul tema e sul formato della nassa. In entrambi i casi, l’immagine di intrappolamento che questo particolare oggetto comunica fin dalla sua forma (caso clamoroso di un funzionalismo intuitivo, artigianale) è messa al centro dell’opera, associata però con il suo contrario. In Nassa / Pot break to free la sensazione di apertura, di via di scampo in qualche modo conquistabile, e d’altra parte la spinta verso l’alto data dalla verticalità della struttura, trasformano la trappola in una via d’uscita privilegiata; nell’orizzonte illogico e poetico dell’opera d’arte, l’oggetto trascende la propria forma e, in qualche modo, si eleva in una redenzione simbolica.  Nasse / Pots past traps , invece, compie un diverso tipo di trasfigurazione della trappola: quest’ultima, allentata e stilizzata, scala sull’asse linguistico e diventa piuttosto una cornice, la marcatura di un punto d’osservazione privilegiato che apre il nostro sguardo sul mondo (e, in questo caso, sul resto della mostra).

Una seconda, e ultima, breve riflessione riguarda il testo di Bauman a cui la mostra fa riferimento. Il titolo inglese, Living On Borrowed Time, significa letteralmente «Vivere in un tempo preso in prestito». La suggestione è data da una lettura puramente letterale, ed è sicuramente involontaria. Ma ancora una volta, guardando al senso presente più che al significato nascosto, possiamo entrare meglio nell’anima di questo lavoro artistico: le opere di Patrizia Bonardi, con la loro presenza forte e al tempo stesso discreta, con il loro indicare senza affermare asseverativamente, con il loro rispetto per l’osservatore, al quale chiedono una fruizione attiva e creativa, piuttosto che una spettatorialità passiva, rendono perfettamente giustizia all’idea – molto attuale – di vivere in un presente di cui nessuno di noi è padrone; in un tempo che, come uomini, prendiamo in prestito gli uni dagli altri, e che pertanto richiede una costante assunzione di responsabilità, e la passione della cura.

 
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