Patrizia Bonardi

Patrizia Bonardi

Nila Shabnam Bonetti per P.Bonardi La paura dei barbari 2017


Ieri sera ho visto Fratelli di Crozza, show televisivo che dubito non conosciate. Patita delle parodie politiche? Tutt'altro. Mi disinteresso alla politica, figuriamoci alla relativa satira. Uno degli sketch ironizzava sul bisogno dei cittadini di armarsi per far fronte all'invasione di profughi che invadono la nostra terra e violano la tranquillità della nostra sfera domestica per svaligiare le nostre abitazioni. Poi l'attore mostrava come gli ultimi dati statistici rilevassero un netto calo della criminalità, proprio in questo periodo, in cui l'immagrazione ha raggiunto tetti altissimi. L'opinione pubblica è influenzata dai media, dalle strategie che un mucchio di persone, controllate a loro volta da un altro mucchio di persone, comandano di far credere, facendo il buono e il cattivo tempo. Ed è anche comprensibile che, per chi non è incline all'approfondimento delle informazioni, il clima si faccia nervoso, attribuendo a poche schegge impazzite quella che è l'intenzione di molti. Specialmente in una società come la nostra, che l'antropologo Francesco Remotti definirebbe dall'identità rigida, poco incline al cambiamento. La rivendicazione del Sé ci pone in contrasto con l'altro creando confini difficili da valicare, proprio perché ci auto definiamo aggrappandoci erroneamente a forme etniche, politiche e religiose che non dicono ciò che siamo realmente: esseri umani, forti e fragili, accomunati da sentimenti e desideri universali. Siamo scappati e scappiamo tutti dalla miseria, sogniamo una vita migliore, alla ricerca della felicità nostra e dei nostri figli. E Remotti, nelle sue ricerche su diversi popoli indigeni, mostra come in società animiste e paritarie, in cui la definizione dell'identità non si sia mai posta come un bisogno, l'incontro con il diverso (in questo caso l'uomo bianco intento a studiarli) sia basato su un sincero e incuriosito scambio, rivolto all'acquisizione e all'appropriazione del nuovo. Viene da pensare che la "verginità" verso l'altro da sé porti a un approccio libero dalla paura. La nostra memoria, parlo del popolo italiano, tra l'altro di recente formazione come identità nazionale, è costellata da informazioni dolorose, tra dominatori e invasori stranieri. Quello che Todorov, ne La paura dei barbari, definisce come sentimento della paura appartiene a popoli come il nostro che, con difficoltà, si è emancipato e arricchito ed ora teme di perdere tutto a causa delle masse impoverite provenienti da paesi più o meno limitrofi. Lo stesso autore ci mette in guardia da questo sentimento che, in casi storici ben conosciuti, ha portato a forme di difesa rivelatesi distruttive per entrambe le realtà coinvolte in questa dinamica. Potremmo scegliere strategie pulite (e uso questo termine, pulite, proprio per non cadere nelle solite dinamiche di sfruttamento a danno dei migranti) per tramutare in un punto di forza quella che ora ci appare come un'ingestibile debolezza. Ma, seppur ci si vanti di fare parte dell'evoluto Occidente, le Memorie storiche, in una società che corre all'impazzata verso non si sa bene cosa, sono qualcosa che non riesce a tenere il passo, semplicemente perché non lo vogliamo. Commemoriamo le Memorie curandocene formalmente, istituiamo giornate dedicate, le studiamo a scuola (quando va bene), ma le nostre scelte quotidiane sembrano fratturate da quel "pacchetto" che resta chiuso in un cassetto.


Patrizia Bonardi si interessa a queste tematiche da dieci anni, declinando queste riflessioni nella sua ricerca artistica. Incamera e rielabora da tempo informazioni che restano oscure ai più, prima fra tutte la tragedia delle morti nel Mediterraneo che in questi ultimi anni ci porta a identificare in numeri la morte di innocenti. La mostra che ha deciso di inaugurare, in corrispondenza con l'apertura del suo studio-spazio espositivo artists.sociologists, è un evento dedicato alla Memoria delle vittime, alla condivisione di questo dolore, che ha aperto in lei una cicatrice insanabile, e alla sensibilizzazione su un tema di interesse collettivo, strumentalizzato senza riserve dalle politiche dominanti di tutti i paesi del mondo, dall'Oriente all'Occidente. Pochi pezzi, di grande potenza, portano il visitatore ad immergersi e mettere in discussione se stesso e le proprie prospettive.

Colonne d'acqua (Water Colunms + Breaking pain geometry) è un'installazione monumentale che lei stessa definisce come la rielaborazione di un trauma, il tentativo di razionalizzare pensieri ed emozioni, fino a rendere l'oggetto come una testimonianza dell'incapacità di tutti noi, cittadini europei, di evitare una tragedia. Giocata sulla ricerca di geometrie e la distruzione delle medesime, si presenta in grandi parallelepipedi di legno, cera d'api e pigmenti colorati, accostati a un cubo di legno e a delle garze mediche pendenti, anch'esse intrise nella cera. L'intera opera definisce un percorso narrativo molto chiaro. I parallelepipedi come elemento che sovrastano e intimoriscono, l'acqua, la cui natura da sempre è controllata dall'uomo, diventa minacciosa. Il cubo, tentativo di dare una geometria al dolore, si presentava in precedenza rivestito dalle bende e dalla cera, ma ha subito un recente (e inaspettato) sviluppo. L'artista ha deciso di spogliarlo della parte superficiale, con un'azione che la Bonardi definisce come un brutale scuoiamento. Un atto intimo e performativo che ha ulteriormente caricato l'installazione di forza. Ora il quadrato si presenta spoglio e graffiato, come il desiderio di riscatto da un dolore che non può trovare soddisfazione. Ad aggiungere pathos all'opera le garze accostate, che pendono dal muro, corpi senza vita, abbandonati come i cadaveri sulle spiagge. Per quanto possiamo raccontarcela, non si può tornare indietro.

Mentre le Colonne d'acqua parlano di una realtà tangibile e fisicamente vicina, avvenuta in Italia, sotto i nostri occhi, le altre opere in mostra, strettamente collegate tra loro, gettano lo sguardo sul luogo di provenienza dei migranti, su una società sfruttata e distrutta,  resa in macerie. Si tratta di luoghi lontani, che teniamo lontano per paura. Seppur terribili, l'artista riesce a raccontare episodi di guerra attraverso l'uso poetico dei medium prescelti, come per gli acquarelli, in cui la delicatezza della tecnica rappresentativa si contrappone alla durezza del significato.

L'opera Liquid collapse,  in cera d'api, materiale caldo e confortevole, si confronta con una razionalizzazione geometrica scarna che riproduce celle abitative distrutte dalla guerra. Riprendendo lo stesso concept, Open to meet, si presenta in scala diversa e più sintetica. In precedenza l'opera era accompagnata da frasi a muro che indicavano le identità negate, strappate alla vita dalla guerra. L'artista, in questa occasione, riadatta l'installazione al tema della mostra, le identità negate ora sono quelle dei tanti migranti senza nome che popolano il nostro paese e di cui rifiutiamo l'esistenza.


Ci sentiamo sicuri nelle nostre case, emancipati dalla guerra, concetto che vogliamo rimuovere come un trauma antico, ma la velocità con cui gli eventi socio-politici si accavallano dovrebbe ricordarci come il mondo sia un ecosistema piccolo e chiuso che ci costringe al confronto con le nostre paure. Paure da combattere, cambiando seriamento orientamento.

 
Lasting.html
Waters_expectation.html