Zygmunt Bauman


Media, spettatori, attori


Circa mezzo secolo fa, assistendo alla nascita di una rete planetaria di emittenti radio, Alfred Weber (fratello minore di Max Weber, anch’egli brillante sociologo benchè meno celebre) osservò che il mondo si era molto rimpicciolito, e perciò era quasi impossibile in tutta onestà fingere di ignorare quello che succedeva. Non ho sentito parlare Alfred Weber; posso solo ritrovare le sue affermazioni in testi a stampa. Eppure, leggendolo, colgo nella sua voce una mescolanza di due emozioni: ansia e speranza.

Ansia: fragile come sono, gli esseri umani saranno all’altezza della nuova sfida? Saranno capaci di sopportare con pazienza, integrità e dignità l’enorme peso dell’informazione - di conoscere tutta la miseria umana, il male commesso quotidianamente e le sofferenze delle vittime? O non cercheranno - in modo vile, meschino e deprecabile - di sottrarsi a quel peso con calunnie reciproche, insulti, inutili polemiche e aperte rivalità, scorgendo colpevoli e malfattori ovunque tranne che in casa propria?

E speranza: non potrebbe darsi che, finalmente, ora che tutti conosciamo le sofferenze altrui, e non possiamo più addurre l’ignoranza a nostra discolpa, ci assumeremo le nostre responsabilità e correremo a portare aiuto a chi soffre quando e dove ce n’è bisogno, e a chiunque ne abbia bisogno? Che ci mostreremo all’altezza della sfida etica che il nostro nuovo sapere comporta?

Mi chiedo cosa avrebbe detto Alfred Weber se avesse saputo cosa sarebbe successo una cinquantina di anni più tardi; se avesse previsto che sarebbe venuto un tempo in cui un miliardo e più di schermi televisivi sarebbero stati accesi in ogni angolo del mondo, in ogni istante delle ventiquattro ore del giorno; se avesse immaginato che si sarebbe potuto dire dell’impero mondiale della televisione, quello che ai suoi tempi si diceva dell’Impero Britannico: che il sole non tramontava mai sui suoi domini vasti come il mondo.

Non è solo che il volume dell’informazione prodotta, trasmessa e distribuita è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi decenni. La quantità di informazione “disponibile” (e la parola “disponibile” va scritta tra virgolette, poiché il punto in cui la mente umana poteva ancora sperare di ingerire e assimilare tutta l’informazione offertale e ghiottamente “a portata di mano” è stato da tempo superato) ha raggiunto un livello senza precedenti; ma ancora più gravido di conseguenze è il cambiamento della qualità della informazione che oggi in tutto il mondo raggiunge le nostre case.

La radio, come i giornali e le riviste, raccontava: e i suoi racconti potevano essere considerati molto e o poco credibili, importanti o irrilevanti, emozionanti o noiosi. La televisione trasmette immagini - vivaci, luminose, nitide, esplicite, drammatiche, spettacolari; immagini “più vere del vero”, in certi casi tecnicamente “più perfette” di quanto la realtà potrà mai sognare di essere.

Oggi sono le immagini televisive a fissare i parametri in base ai quali misurare la qualità di ciò  che “è reale” I prodotti in bella mostra sugli scaffali dei negozi portano a volte etichette promozionali con la scritta as seen on Tv, “come l’avete visto in Tv” ( e questa diventa la garanzia ultima e più autorevole che l’oggetto che avete di fronte è proprio quello che cercavate). Ciò che sancisce il valore delle merci in un negozio funziona altrettanto  bene come criterio di autoaffermazione umana. Cartesio potrebbe forse modificare il suo cogito... in: “sono apparso in Tv, quindi sono...”. Dal momento che “l’altra realtà”, che inizialmente le telecamere avrebbero dovuto cogliere e “ri-presentare”, è stata lentamente ma inarrestabilmente sminuita dalla perfezione tecnica delle telecamere stesse, e dalla perizia di quelli che le usano, non è più possibile ignorare, e tanto meno sottovalutare né disprezzare le immagini sullo schermo televisivo per l’autorità di ciò che il grande storiografo Ranke due secoli fa notoriamente definì: wie es ist eigentlich gewesen (“come la cosa si è svolta veramente”). Cioè, per quanto ne sappiamo, quello che vediamo in Tv è proprio quello che è veramente successo...

Così oggi siamo tutti - consciamente o no, volontariamente o no - spettatori globali; testimoni oculari del male inflitto agli esseri umani ovunque nel mondo. Non ne sentiamo soltanto parlare - vediamo il male nel momento in cui viene compiuto, anche se facciamo poco, o niente del tutto, per rimediare alle sue conseguenze, e meno ancora per prevenirne i danni. Nella replica quotidiana del dramma mondiale dell’umana sofferenza siamo scaraventati nel ruolo di spettatori. Il male ci è mostrato in azione, assistiamo alle sue conseguenze terrificanti e non possiamo più farci scudo dell’ignoranza: il non sapere, sarebbe solo una dimostrazione di cattiva volontà, visto che potremmo sapere, e sapremmo, se solo volessimo.

Essere spettatori significa esporsi a una gigantesca sfida etica. Vedere il male in azione pungola la coscienza, la percuote. Posso fare qualcosa per fermarlo? Quanto contano le mie azioni (o la mia inerzia)? Hanno forse contribuito, per quanto indirettamente, al compimento del male? Ci sentiamo colpevoli, sebbene con un sentimento vago, difficile da precisare; in caso di accusa, ci dichiareremmo innocenti, e in senso legale abbiamo buone ragioni per respingere le accuse.

Molte non reggerebbero in nessuna aula di tribunale e se qualcuna suonasse plausibile, un bravo avvocato troverebbe senza fatica argomenti convincenti a nostra discolpa. Ma la coscienza è più pronta, più sottile e più tenace del più razionale dei ragionamenti. E il senso di colpa non se ne va.

La linea che separa il testimone dal reo e dai suoi complici è ben marcata e definita solo in tribunale. Nella coscienza morale il confine è sfumato e facile da cancellare... In tribunale si può dimostrare che ciò che l’imputato ha fatto o omesso di fare non ha cambiato nulla. Ma alla coscienza questo non basta. Rimane il tormento del dubbio che qualcosa avrebbe potuto andare diversamente se ci fossimo impegnati di più. E l’impossibilità, o l’incapacità, di cambiare le cose non placa il disagio morale: semmai aumenta il senso di colpa. A dispetto di tutte le dichiarazioni di innocenza, la foga con cui la colpa è negata tradisce la cattiva coscienza.

Ci sono anche altri sintomi: per esempio, lo spettacolare successo del titolo di un articolo pubblicato su un oscuro periodico da Eward Lorenz, un paio di decenni or sono: Il battito di ali di una farfalla in Brasile può causare un tornado in Texas? “l’effetto farfalla” è diventato da allora un modo di dire comune e oggi è familiare a chiunque. Per assurgere a tanta celebrità, l’espressione deve aver toccato un tasto sensibile facendo affiorare qualcosa che era stato sepolto nelle buie profondità del subconscio. Non siamo un po’ tutti come la farfalla brasiliana? Allegri e spensierati agitiamo le ali; dopo qualche giorno apprendiamo del tornado in Texas, ma il dubbio che le due cose siano collegate non ci sfiora nemmeno. Con una simile sospetto è difficile vivere in pace; perciò, chi non cercherà, ostinatamente e perfino disperatamente, di allontanarlo e ricacciarlo indietro? E quale modo migliore, volendolo bandire dalla vista e dal pensiero, del negarne la verità, malgrado tutte le prove del contrario? O, in alternativa, negare di sospettare, e tanto meno di conoscere, tale verità?

Ma la tecnica del “non lo sapevo”, un tempo tra le più diffuse forme di negazione della colpa, è diventata oggi del tutto inutilizzabile a causa dell’esplosione delle comunicazioni. Perciò la sua funzione è stata rimpiazzata dall’espulsione dei sofferenti dal campo dell’obbligo morale: soffrono, questo è vero, ma sono essi stessi la causa dei propri mali - per passività, debolezza, pigrizia o disonestà. Non sono davvero umani, non “in pieno”, non nel modo in cui noi lo siamo - perciò non hanno diritto al trattamento dovuto agli essere umani. Di conseguenza, non fare nulla per alleviare il loro dolore non è una colpa, un difetto morale, quod erat demonstrandum.

Il fascino di questa giustificazione è grande, e cresce col numero delle vittime della cui sorte, grazie a immagini onnipresenti ed esplicite, siamo consapevoli.

La tentazione sembra irresistibile; ma è una tentazione odiosa che dobbiamo respingere, se non vogliamo che l’esplosione dell’informazione aggiunga la beffa al danno, producendo ancora più inumanità e insensibilità nello stile del “sono-solo-uno-spettatore”. In quanto induce ad accampare simili scuse, rendendole un’opzione attraente, la tanto decantata “esplosione dell’informazione” è un pericolo per l’umanità. Invece di facilitare la comprensione, l’aumento dell’informazione rischia di renderla ancora più difficile.

Un’altra maniera molto in voga di negare la colpa è la formula “comunque non posso farci niente” (o “quello che potevo fare l’ho fatto”). Simili giustificazioni non sono affatto campate in aria. Al contrario, sono confermate dalla quotidiana esperienza degli uomini e delle donne nella nostra società individualistica; una società che rende fragili e volatili i vincoli umani, e fa apparire l’impegnarsi (in particolare a lungo termine e incondizionatamente) un passo sconsigliabile, insidioso. In una società come questa, la maggior parte delle persone, per la gran parte del tempo, è costretta ad agire in uno stato di profonda incertezza e percepisce la propria condizione come insicura e difficile, addirittura impossibile da controllare. Viviamo in quella che Pierre Bourdieu ha descritto come un’atmosfera di continua e apparentemente incurabile precarité, e le persone che si sentono “precarie”, incerte delle proprie azioni e insicure di quelle di quanti sono “come loro” (persone, per citare di nuovo Bourdieu, che non “riescono ad afferrare il presente”) difficilmente riusciranno a racimolare il coraggio e la fermezza necessari ad affrontare la realtà e a lottare per un’alternativa migliore e più umana. Piuttosto, esse sono spinte a cercare, come suggerito da Ulrich Beck, soluzioni biografiche (private) a problemi sistemici (sociali); un compito che nella maggioranza dei casi non sono in grado di gestire, e meno ancora di gestirlo in modo efficace e soddisfacente.

Questa spinta incoraggia un atteggiamento alla “stiamo a vedere”: tenersi entrambe le mani libere, evitare di ipotecare il futuro, ricordare che associarsi agli altri è consigilabile solo se il contratto include una clausola di “uscita a richiesta”. La scusa del “comunque non posso farci niente” rispecchia questo atteggiamento. Una volta assunto, il verdetto “non posso fare” ricava la sua evidente dimostrazione da un presupposto tanto implicito quanto saldo: è meglio che non faccia - quindi non farò... E’ un atteggiamento che non incoraggia a cercare modi e strade per fare più di quanto si è già fatto - ossia, più di quello che fanno le persone “sensate e prudenti”. Quindi non induce a cercare di comprendere più profondamente quello che “si vede in Tv”. Effettivamente, a cosa servirebbe una comprensione più profonda?

Potrebbe richiedere più impegno, più assunzione di responsabilità; potrebbe comportare dei vincoli, dimostrare che la ricerca di “soluzioni biografiche alle difficoltà della vita” è controproducente.

Per la verità, ostacoli formidabili rendono difficile trasformare il sapere fornito dall’attuale flusso di informazioni in un’autentica comprensione del mondo su cui esse dovrebbero appunto informare; ugualmente ostacolata è la trasformazione degli spettatori in attori, capaci di pentirsi per la rinuncia alla responsabilità e per il senso di colpa che, per quanto ingegnose siano le giustificazioni, tutt’al più può esser messo a tacere per un po’, ma non toglie il disturbo. Questi impedimenti rendono più difficile affrontare la sfida etica lanciata (per citare le parole di Hannah Arendt in relazione ai crimini di guerra della Germania) dal “secolo degli spettatori”:


Occorre assumersi la responsabilità di tutti i crimini commessi dagli uomini, per cui a nessun popolo sia dato il monopolio della colpa e nessuno se ne consideri al di sopra, e i buoni cittadini non rabbrividiscano davanti ai crimini della Germania esclamando “Dio mio, io non sono così”, ma riconoscano con timore e tremore l’incalcolabile male di cui l’umanità è capace e lo combattano senza paura, senza compromessi e dovunque.


(H.Arendt, Essays in Understanding)


Non confondiamo il vedere col capire; a volte il vedere è di ostacolo al capire, invece che di aiuto. L’informazione che ci sommerge dagli schermi televisivi può essere così luminosa da accecarci. Cercare di restare a galla nell’oceano delle informazioni può impedirci di fermarci a riflettere, di fare due più due e tirare le somme. Tutto ciò è particolarmente scomodo, e potenzialmente devastante, quando si tratti di sollevare lo spettatore dai limiti del suo ruolo di astante passivo e muto. I rapporti tra gli “eventi”, ciascuno mostrato in Tv per un breve lasso di tempo, finchè l’episodio successivo non riempie lo schermo, sono quasi impossibili da ricostruire. Non si vedono e non sono impliciti in ciò che si vede. Le immagini di bambini affamati celano, più che mostrarle, le fonti di sussistenza distrutte dalla competizione del libero mercato e dai “progressi” tecnologici che rendono impraticabili e superflui i modi di vita tradizionali. La visione dei cadaveri disseminati sugli innumerevoli campi di battaglia dei conflitti tribali nasconde, anziché rivelarla, “la vendita aggressiva” di armi sempre più moderne e sofisticate”. Le immagini di corpi emaciati e sanguinanti coprono, anziché svelarla, la necessità di curare le anime ferite e soccorrere la dignità umana calpestata.

In parte questo può essere un problema giornalistico - le notizie potrebbero essere disposte e redatte in modo diverso. Ma le analisi approfondite non sono abbastanza “televisive”.  Per usare le parole del capo di uno dei colossi dei media, le notizie vanno servite come il caffè: calde e forti. Se smettono di intrattenere, non servono più a niente; e non possono intrattenere, se le si lascia raffreddare.

Come noi tutti, anche la TV, messa sotto accusa, ha qualche valida giustificazione. Le compagnie televisive operano in un mercato fortemente competitivo; gli alti indici di ascolto (spingere le persone a sintonizzarsi su un canale e a restarci il più possibile) sono per loro, solo con un minimo di esagerazione, una questione di vita o morte. Inoltre, nel passaggio frenetico da un episodio all’altro senza approfondirne nessuno, i responsabili dell’informazione televisiva si limitano a seguire la tendenza generale di una cultura che aveva già preparato, e sintonizzato, i suoi spettatori molto prima che gli operatori televisivi avessero appreso l’arte di sopravvivere. Viviamo, come ha detto George Steiner, acuto osservatore delle mode e delle fobie contemporanee, in una “cultura da casinò in cui il tempo è suddiviso in giochi separati e ogni gioco non ha niente a che fare con gli altri. In una simile cultura, tutte le offerte (non solo quella televisiva) sono progettate in funzione del  “massimo impatto e dell’obsolescenza immediata”. Il tempo è il bene più prezioso: qualunque cosa richieda più tempo di quello che l’attenzione degli spettatori da casinò può concedere è senza speranza. E la permanente mancanza di tempo, questa peste frutto della competizione dei media per l’attenzione, avvantaggia le idee banali - spezzoni di significato che piacciono all’onnipresente ma superficiale senso comune e a convinzioni tanto popolari quanto acritiche - mentre mette in posizione di svantaggio tutte le idee critiche e non ortodosse che richiedono tempo, sempre più tempo, per ponderare e riflettere. Nella guerra dell’ascolto, la facoltà critica dell’uomo è la prima vittima. Le probabilità avverse alla comprensione sono soverchianti.

Troppo spesso l’accelerazione del flusso e l’aumento del volume delle informazioni giocano a sfavore delle opportunità di comprensione. In questo, i media - la loro collocazione nel contesto sociale ed economico contemporaneo - possono essere considerati complici del misfatto. Il loro grande merito, questo è vero (anche se più per caso che volutamente), è lanciare la sfida etica che, in teoria, può condurre al risveglio morale.

Tuttavia, bisognerebbe guardarsi dal riservare il biasimo solo ai media. E’ probabile che la televisione possa fare di più per aiutare la comprensione; quello che fa non è certo sufficiente, e spesso è addirittura il contrario di quello che potrebbe e dovrebbe fare. Ma c’è un limite a ciò che possiamo aspettarci dai media.

La comprensione è effettivamente la condizione preliminare dell’agire morale - ma non è l’unica; è una condizione necessaria, non sufficiente. Ce ne sono altre, della cui assenza non è possibile incolpare i media, perché questi ne influenzano poco la struttura e le dinamiche.

Fondamentale, tra le condizioni dell’agire morale su scala sociale (e ormai planetaria), è la presenza di un’organizzazione efficiente che dia corpo e consistenza alla parola - che converta le intuizioni morali e i progetti ispirati all’etica in un’efficace resistenza al male e in una lotta vittoriosa contro la miseria e la sofferenza dell’uomo.

Dall’inizio dell’era moderna il ruolo di tale organizzazione è stato svolto con risultati incostanti, dalle istituzioni dello Stato nazionale. D’altra parte, la globalizzazione oggi si manifesta come divorzio tra potere (capacità di fare) e politica (impegno per realizzare), un tempo un matrimonio indissolubile all’interno delle istituzioni quali i meccanismi democratici degli Stati territoriali. Le condizioni di vita degli uomini e delle donne nel nostro tempo dipendono da poteri che si muovono in spazi planetari, extraterritoriali, sottratti a un efficace controllo politico e a un’efficace supervisione etica - mentre tutti gli strumenti politici sviluppati nell’era moderna e sensibili ai principi etici rimangono, come in passato, territoriali. Potere e politica non coincidono più, e la classica domanda “Che fare?” sempre più spesso è spodestata da un’altra: “se non sapessimo che fare, chi lo farebbe?”.

La capacità di azione delle istituzioni attuali è inadeguata alle necessità. C’è un divario sempre più ampio tra gli spazi planetari di libero flusso del potere e le zone recintate e amministrate dagli Stati nazionali e dalle loro istituzioni sussidiarie; un divario che gli Stati - da soli, in gruppi o collettivamente - non sono in grado di colmare. E’ l’alternativa - le istituzioni non governative che rifiutano le politiche fuorvianti e paralizzanti del “pensare globalmente e agire localmente” e mirano invece ad azioni non meno planetarie delle potenze globali che vanno imbrigliate, addomesticate e assoggettate al controllo democratico - deve ancora imparare, con una lunga serie di prove ed errori, ad agire efficacemente, alla luce della resistenza congiunta delle potenze globali, gelose del loro bottino, e delle istituzioni politiche locali, gelose delle loro prerogative.

I media possono fare moltissimo (anche se per loro non sarà facile) al fine di aiutarci a comprendere questo stato di cose. Ma il mondo non cambierà solo perché ne capiamo il funzionamento. Capire non basta a rendere più umana la realtà, a respingere l’oppressione, l’indigenza e le umiliazioni, ad assicurare che le esigenze etiche prevalgano sull’egoismo degli interessi locali, tribali o comunque settoriali. Un altro divario, quello tra il comprendere e l’agire con efficacia, deve ancora essere superato. E ciò non avverrà solo grazie a un aumento della quantità, o a un ampliamento dei contenuti della comunicazione. Anche con il massimo sforzo dell’immaginazione, i media da soli non sono in grado di arrivare a tanto.

                                                                                                                                                     Milano, 29 Marzo 2004