Primavera artificiale
Scrivo mentre siamo appena entrati nella primavera, eppure cosa vede un occidentale di questi tempi se chiude gli occhi e cerca di rappresentarsi il momento storico? Forse un paesaggio in scala di grigi, più grigio cupo che grigio tenue. Un paesaggio non troppo solido, tendente a liquefazioni e gassificazioni, che non possiedono però nulla del rassicurante di ciò che è leggero e impalpabile. Gli conferiscono bensì l’ansia e l’incertezza della cecità, dell’oscuramento sotto le bombe, ove puoi dissolverti da un momento all’altro senza che ti sia dato di vedere la causa. Ovviamente non è solo il caso di un occidentale, ma Patrizia Bonardi ed io siamo tali e tali saranno la maggior parte di coloro che vedranno la mostra.
In un clima di sospensione metafisica, nella consapevolezza-paura che questa volta difficilmente si potrà dire – come Jean Baudrillard oltre trent’anni fa, ai tempi della prima guerra del Golfo (1990-1991) – che la guerra non ha (avuto) luogo perché l’unico luogo in cui la guerra sarà (stata) tangibile saranno (stati) i media,(1) irrompe, almeno cronologicamente, la primavera. Cronologicamente si è costretti a specificare perché anche le stagioni si mostrano sempre più sfigurate dai segni della violenza umana, e sempre meno ciclo annuale e meteorologia trovano corrispondenze fisse e prevedibili.
Irrompe poi quella sorta di primavera artificiale che è la gioiosa macchina di pace e passione della Bonardi, laddove artificiale è per me da intendersi in quanto diverso, forse persino compensativo, rispetto ad una primavera come stagione che non ha più i caratteri ineludibili di un tempo, nonché prodotto di artifex, artefice, parola che possiede la stessa radice di arte e ne rimarca la dimensione, cara a Vincent Van Gogh, di commistione tra uomo e resto della natura. Una primavera artificiale che combatte peraltro ad armi deliberatamente impari contro l’inverno – e l’inferno, come direbbe Claire Bishop(2) – artificiale – e qui l’aggettivo prende vice versa la valenza più sinistra possibile, l’artificio di un fuoco letale ed annichilente – che minaccia di prolungarsi ben oltre i suoi confini stagionali, alimentato dalle armi più perverse – quelle chimiche, che si evocano attualmente lo sono anche più di quelle da fuoco, “tradizionali”.
Di fronte a tutto ciò però entrano appunto in frizione le armi, simili ai vecchi cannoni pieni di fiori, che sole Patrizia conosce. Il grigio agro trascolora così in prevalenza e prorompenza di rosso. Rosso come il sangue, ma non il sangue che si versa, bensì quello che ribolle nelle vene e testimonia che la vita è ben più di un mero perpetuarsi dell’esistenza biologica. La vita sarà esplosiva o non sarà, parafrasando un celebre adagio bretoniano, purché sia appunto una esplosione di vita e non una esplosione che tronca la vita.
Anche il Vulcano nella realtà è uno agente di morte. L’isola di Procida non è che una parte di quella grande caldera che sono i Campi Flegrei, i quali un giorno, presto o tardi, si risveglieranno e non lasceranno alcuno scampo ai suoi abitanti. Ma nel frattempo a noi flegrei piace pensare che l’inquieta materia densa, che ribolle sotto i nostri piedi, sia alimento del nostro dolce vibrare.
La geometria di un’eruzione possiede la cera d’api pigmentata su tavola Vita, fenomeno geologico che richiama però quello bio-psichico di un cuore che pulsa, mentre biro su tela come Frequenze, Rete, Volo registrano un ritmico, cadenzato aereo incontrarsi per natura e nella natura. C’è qualcosa dell’armonico danzare dei personaggi matissiani, benché senza la piattezza indefinita degli ambienti in cui si muovono, dei voli fiabeschi delle figure di Marc Chagall e forse persino qualche eco klimtiana, benché assolutamente scevra della sua melanconia e del suo turbamento, oltre che dell’apparato di geometrie auree e gemmee che paiono ad un passo dal disfarsi sotto gli occhi dello spettatore.
Ma compagno fedele del rosso è il bianco, perché non c’è esuberanza senza raccoglimento e introspezione. Non vi è tempo per qualcosa se non vi è anche il tempo per il suo contrario, «Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo», insegna da oltre 2000 anni Qoelet. Di tali dimensioni sembrano parlarci i vari annodarsi delle bende imbevute di cera d’api di Identità #1 e Identità #2 – la prima apparentemente più lineare e coincisa, l’altra più drammatica e irregolare, benché entrambe trovino una sorta di fulcro nel vuoto circolare che occupa il centro. D’altra parte il bianco dimostra di sapersi fare anche corpo stereometrico, flessuoso, organico ove tanto la sua consistenza ed il suo articolarsi quanto la sua tinta – la stessa della veste battesimale – sa di ritorno-rinnovamento irriducibile della vita, come in primavera e come suggerito dal titolo Rinascita.
Un rosso al di sotto del quale emergono squarci di tenebre è invece quello di altre opere in cera d’api pigmentata su tavola come Rispetto, Insieme e soprattutto di Libertà. Forse perché qui ci addentriamo davvero in territori impervi. Spesso la mancanza di rispetto si scambia con eccesso di amore, sembra dire Patrizia, mentre il rispetto è ingrediente indispensabile per un amore maturo. La nozione di libertà poi è da sempre spinosissima tanto in sé e per sé quanto declinata in rapporto all’amore, laddove l’amore degenera piuttosto in dipendenza, attaccamento, oppressione, erodendo la libertà. Quell’apparente arco di possibilità troppo ampio, quasi capace di generare una sorta di agorafobia, dalla quale diventa più agevole evadere, come ci insegna Erich Fromm,(3) quando bisognerebbe invece pensare la libertà come territorio impervio faticoso ma irrinunciabile sul quale far muovere le nostre esistenze.
Ancora diverso, benché evidente sviluppo della linea che genera queste ultime due opere è infine Tu danno, in grado di turbare i nostri consueti modi di scandaglio logico-percettivo fin dal titolo. Qui le tenebre si espandono ulteriormente, pur producendo tutt’altro che un buio pesto e impenetrabile, in quanto come funestato da due misteriosi globi gassosi: uno maggiore che - richiamando ancora il colore dominante dell’intera mostra, ma più specificamente l’enigmaticità della scultura in cera d’api Rosso sferico, pur entrando in contrasto con la sua politezza - deflagra alla metà sinistra del campo, ed un altro minore arancio-rosa pallido che fluttua centrale ed assai più compatto come una luna al tramonto. Malgrado il titolo che sembrerebbe suggerire una valenza netta, è qui difficile individuare un messaggio unico, permanendo così piuttosto in bilico tra eccitazione e violenza, eccedenza e annientamento, eros e thanatos.
Stefano Taccone
NOTE
1 Cfr. J. Baudrillard, La Guerre du Golfe n'a pas eu lieu, Éditions Galilée, Paris, 1991; J. Baudrillard, P. Dalla Vigna. C. Formenti, F. Guattari, M. Perniola, T. Villani, Guerra virtuale e guerra reale. Riflessioni sul conflitto del Golfo, Mimesis edizioni, Sesto San Giovanni, 1991.
2 Cfr. C. Bishop, Artificial Hells: Participatory Art and the Politics of Spectatorship, 2012, trad. it. a cura di C. Guida, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell'arte, Luca Sossella editore, Roma, 2015.
3 E. Fromm, Escape from freedom, 1941, trad. it. Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, Milano, 1963.